rassegna di narrativa italiana 2007

26 febbraio, 2008

NA n. 41 (I/08)

[Le recensioni che seguono si trovano nella rassegna che ho curato per il numero 41 (I/08) di Nuovi ArgomentiNon ancora trentenni in libreria dalla metà di Febbraio 2008].

L’economia delle cose, Elena Varvello
Verderame
, Michele Mari
Il signor figlio, Alessandro Zaccuri
Sappiano le mie parole di sangue, Babsi Jones
Breve storia di lunghi tradimenti, Tullio Avoledo
Dieci, Andrej Longo
Fammi ridere, Leila Mascano Tadino
L’acchito, Pietro Grossi
Quanto so di Anna, Ferruccio Parazzoli,
Andai dentro la notte illuminata
, Giancarlo Liviano d’Arcangelo
Mal di pietre, Milena Agus
Chi ha ucciso i Talk Talk, Saverio Fattori
Un certo senso, Francesco Fagioli

l’economia delle cose

Variazioni Goldberg (L’economia delle cose, E. Varvello, Fandango) Se non ci fossi stato io, forse, si sarebbe messo a piangere, si sarebbe seduto in un angolo e si sarebbe messo a piangere per tutte le cose che erano successe. Ma eravamo diventati uomini, e gli uomini stringono un bicchierino di plastica tra le dita fino a romperlo. L’economia delle cose è un tranello. Sembra una raccolta di racconti ed è un esercizio di stile. Perché Elena Varvello ha scritto un’unica storia al centro della quale sta la nostalgia delle cose perdute e del non detto e del buonaugurio per quelli che rimangono. Monchi e costretti alla sopravvivenza. A me piace pensare che al centro ci sia Carla che nonostante tutto cambia una ruota a una macchina che nemmeno le appartiene. Una specie di intimità di cui nessuno di noi si sarebbe mai potuto disfare. Che al centro ci sia il freddo e il necessario per proseguire su un percorso comunque scivoloso. E che le variazioni arrivino assordanti, infide, fascinose agli uomini alle donne ai rapporti di parentela e alle indiscrezioni. Degli amori, delle predilezioni e delle convivenze. Sono racconti di gente qualsiasi di paure qualunque di sfortune addirittura statistiche di psicodrammi metatelevisivi e di inquietudini familiari belle addormentate sotto al parquet. Con principi azzurri acquattati come faine brune. Sono racconti di tutti e narrati per voce sola. Una zona di rimpianti e rimorsi e possibilità mai realizzate. Strade non prese o prese troppo tardi. E che a un certo punto la vita si restringe, ma non per questo uno smette di immaginare o di pensare cos’altro gli sarebbe potuto succedere se soltanto, se allora, se non avesse fatto questo o quest’altro, o se l’avesse fatto. Come saremmo potuti diventare? Cosa saremmo dovuti diventare?. Varvello ha composto una raccolta di variazioni con una sola lingua lineare, stipata di uncini interrogativi che arpionano l’occhio del lettore fino all’ultima pagina e senza ausilio di subordinate. Una lingua diffusa che è sempre monodia accerchiante, dialogo interrotto e coltre spessa e che è il limite e il fascino delle storie. Perché non si può smettere di leggere, non si può non volerne ancora quando la pagina è rimasta a mezzo e ne comincia un’altra trattenuta sotto un titolo diverso, ma nemmeno si può a distinguerle l’una dall’altra quasi l’umanità tutta sia una e basta in mezzo a tante differenze di ceto e pensiero e misericordia.

verderame

Monadi mnestiche (Verderame, M. Mari, Einaudi) Io non ero uno scienziato che indaga per amore della verità: ero un esteta in erba che indagava per amore del brivido e dell’effetto, e in mancanza di tornaconto me ne sarei tornato in biblioteca a fare la vita di sempre. Il verderame di Michele Mari è la letteratura che per difendere la vita da fastidiosi assedi, per preservare la forma del mondo da antiestetici aggregati, nebulizza le circostanze con una patina compatta, brillante per colore e opaca per consistenza, che avvelena i palmi. Due volte l’anno. E il verderame?, Il verderame cosa?, Niente, chiedevo tanto per chiedere. Verderame è il racconto di una infanzia così piena che non c’è necessità o esercizio d’abbandono per crescere e ottenere altro ed è avvincente per tutti. Quelli che sono cresciuti in campagna e quelli che avrebbero voluto. Tutti col fiato sospeso e giù per terra. Verderame infatti è la storia di un bambino e di un giro tondo. Solo che la visione è prospettica, il tempo scorre, le circonferenze traslano e sulla pagina rimane un rovello che è quasi spirale e quindi gioco dell’oca. L’infanzia può essere insidiosa. Michelino ha letto tanto e di più ha immaginato, ha una famiglia con una biblioteca e d’altronde il padre ha esposto alla triennale di Milano, trascorre l’estate dai nonni in una magione nel Varesotto, qui sinonimo di ogni insipienza, e stringe rapporti con Felice, l’uomo di fatica, che è brutto, scaracchia e giustizia le lumache rosse. Il bambino, come tutti i bambini, non è buono, ma solo curioso, Felice, nonostante possa essere un calco di Buon Selvaggio, assomiglia assai più a una figura del Doganiere nascosta tra le alte verzure. La storia è imbandita di autori e attori e personaggi che si intersecano e sfocano in aloni di entusiasmo ed emulazione. Così Michelino domanda, Felice risponde quando può e con le parole slabbrate che ha in mente. Perché in questa estate c’è un bambino rimpinzato di libri e un uomo che s’affloscia sui vuoti dei ricordi che si smarriscono. Michelino è un Pollicino colto in un bosco adulto. In entrambe le accentazioni. Ed è perciò che si comincia con una mnemotecnica e si finisce col credersi immortali. Ed è grazie a Felice che Michelino discorre l’estate dai nonni in campagna. La casa è vecchia, la televisione riecheggia di drammi storici e caroselli, le pagine della settimana enigmistica inciampano le consuete connessioni di termini noti e il bambino che è il signore delle parole e delle tracce corre il rischio di colmare i vuoti del suo unico interlocutore. E di coprirne i passi. È vero che non ne vorrebbe altri ma i ricordi di Felice appaiono appena murati vivi dalle supposizioni di Michelino che pure è arguto e furbo e ragiona per analogia e ossessione. I bambini azzardano come nessuno. E anche Michelino, con improntitudine infinita, spalleggiato da un compagno di giochi mostro e tenero, dimentico e sapiente, credulone e fascinoso e, per istanti, tutto insieme. Tutti giù per terra. Solo noi due e i francesi e i russi e i tedeschi e i partigiani e le lumache rosse di sera buon tempo dispera. Perché Mari imbastisce gotico e giallo, favola e rosa, cinema e conigliera, enigmistica ed erudizione e maneggia una lingua magmatica con la protervia di un incantatore di serpenti tanto che, alla fine e a fiato trattenuto, tutto si riavvolge, parentele, travestimenti, fantasmi, lumache e bambini. È un romanzo congegnato e sfavillante. Avrei avuto bisogno di un chimico (…) di uno zoologo e di un biologo, (…) di uno storico (…) di uno psicologo (…) di uno psichiatra (…) di un catasto fantasma (…) di un geologo (…) l’unica cosa di cui non avevo bisogno era un amico perché avevo il Felice.

il signor figlio

Atto di consunzione (Il signor figlio, A. Zaccuri, Mondadori) “Ho esercitato anche l’arte dell’imbianchino, come potete vedere” commenta lontano il conte. “Un imbianchino dotto, però, chimico e vendicativo. C’è sempre molta erudizione nelle mie imprese, così come nelle mie malefatte. Forse troppa erudizione e troppo poche malefatte, ne convenite anche voi?”. L’opera è il connubio di meccanica e pensiero. La sintesi di quanto la logica sia fallace, di quanto gli stili si possano imitare e gli apocrifi confezionare a misura di padre e di figlio. L’opera afferma cabalistica e filata quanto una meccanica di bitte, spago e unto sia più affidabile e flessibile di qualsiasi costrutto, miscellanea o Zibaldone. Non più poeta il povero Jack, ma autore dell’Opera. Zibaldone è la parola esatta anche se il conte Rossi nega di averla pronunciata. Il signor figlio è una biografia ragionata di una esistenza plausibile. Di una vita nuova. Giacomo Leopardi polveroso e non troppo pulito dotto come nessuno eppure senza impiego fisso non muore a Napoli. O non ce la fa a morire. Si imbarca, fugge, sfida e intraprende una corrispondenza. Letture, un carteggio tra una maschera e un’altra in un gioco di specchi che spezza il cuore. Perché Monaldo non ha il coraggio laico per azzardare ipotesi che includano, seppure metaforicamente, la perifrasi resurrezione della carne. E perché mai i profeti, e i figli in specie, per essere riconosciuti nella loro saggezza debbano puntualmente morire rimane, tra i molti misteri, uno dei casi più insondabili. Che spezza il cuore perché in mezzo a una babele di lingue e di argomentazioni Monaldo non ha parole d’affetto ma solo titubanze e il signor figlio, l’intelletto meraviglioso e scomparso, manca di qualsiasi pietosa remora. Nonostante cancelli le parole proprie e ricopi le altrui, Giacomo confida nella lingua di Bishop, fantomatico erudito della corona, per riallacciarsi all’affetto del padre. I genitori dovrebbero rimanere indecifrabili come eroi scolpiti sulla facciata di un tempio. Accorgersi che sono paria tali e quali a noi ci provoca disagio, delusione. È una storia di genitori e figli replicata e trinitaria. Monaldo e Giacomo, Ruyard e John (L.), Olivier e Cecile. Di figli crocifissi da genitori padreterni o metodisti o scrittori magnifici o la tua testa di morto sono io che l’ho scolpita. La lingua di Alessandro Zaccuri è colta e nostalgica. È una lingua arrangiata che stabilisce pause, accelerazioni e canoni. È leziosa nel senso più adorno del termine e per questo Il signor figlio è una lettura che beccheggia tra il sudore accaldato della caccia ai Leopardi, tra le avventure umane e dialogate di John e Jack, e i passi ovattati dalla polvere delle biblioteche e dai vapori della ceralacca. Il signor figlio è un romanzo ingombro di fole e rimandi e il vecchio Jack perno e imbonitore è una figura tenera e bizzarra che ronza intorno ai pensieri come un insetto gobbo e compagno (suggeritore?), insistente e indimenticabile, latore di bacilli di curiosità e bubboni di senso. Anche mio padre, guardi qui, commette lo stesso errore. Vede? Quando deve eliminare una parola, ci tira sopra un frego con la penna. È un suono che mi ha sempre messo i brividi, quello di un pennino adoperato contro natura.

sappiano le mie parole di sangue

Stat rosa Priština nomine (Sappiano le mie parole di sangue, B. Jones, Rizzoli) [NdA Nel seguito libro è parola sostitutiva di romanzo, quasiromanzo, racconto, reportage, narrazione, quaderno di appunti, diario intimo, lavagna, catalogo dei giorni di guerra, taccuino di bordo, esercizio di stile, autobiografia literaria]. Cerco parole: quello che bombe a grappolo, reiterati fallimenti negoziati, nere notti di pogrom e colpi di mortaio non hanno potuto fare fuori; parole. Il resto, è andato ad abitare il vasto reame della devastazione: in macerie finanche le canoniche, le drogherie, gli ospizi e gli ospedali. Nella società delle immagini il compito di cui Babsi Jones s’è fatta alfiere, e a tratti cataro o pitia, è quello di scavare, inventare e tentare perifrasi e cordoli di parole in grado di ricreare evidenze, lampanti, nitidi come immagini, più delle immagini. Una definizione superiore, più che digitale, attraverso le parole. Per ogni suono un segno. Era la sua ossessione diventa Per ogni morte un nome. Era la sua ossessione. Sappiano le mie parole di sangue è un libro di parafrasi, di annotazioni e di ricostruzione. Che comincia in sordina e qualunque con una donna plausibile che dichiara Se questo libro fosse tale allora sarebbe la storia di una settimana di assedio e di pogrom. Falso, quasifalso perché l’esattezza della misura e del giudizio dipende dall’ordine di grandezza considerato. Qui l’ordine prescelto è l’uomo, un po’ Amleto, che indaga, dubita, ricorda e questo è abbastanza per definirlo intelligente. Una settimana di assedio e di pogrom. Vero, quasivero, quasifatto. Sappiano le mie parole di sangue è un libro di contesto. Si presenta come un libro di contesto e si rivela come un generale astratto. Più spuntano date, geografie, tratte ferroviarie, alfabeti perfezionati, lingue tripartite, connessioni storicamente verificabili, sonorità balcaniche, terminologie tecniche, gergo giornalistico, macchine fotografiche con marca e ingrandimento specifico e più il libro si decontestualizza e scivola in discesa e risalita, discesa e caduta, discesa e stasi, discesa e amor di sé. Vendetta verità vandalismo e vergogna. Ci sono penne che fanno tremare la testa o le ginocchia, penne che conducono al sonno e penne rugginose che gridano vendetta e cercano memoria o delle due l’una. Questa penna appartiene così propriamente all’ultima categoria che l’io impugnante del libro deve agganciare il possessivo “mia” al sostantivo “guerra” per tracciare un cerchio di grafite, nominare, possedere e alla fine richiudere tutto nell’intervallo di tempo comune dal quale l’ha tratta. È domenica è sono viva. Yourcenar ha scritto Noi non siamo di qui, noi partiamo domani, Babsi Jones ripete, senza più documenti, il mantra Io non sono di qui, ma poi resta, allacciata al principe di Danimarca, per mesi o forse anni e fino all’ultima settimana, e il fatto stesso che rimanga crea in chi legge una inquietudine scarna. Non si può restare e sentirsi stranieri, non campare di stenti e comunque in un noi e pretendere la prima persona singolare, il punto di vista e l’incertezza del pensatore. Eppure nonostante certe zoppie, che forse sono solo le manifestazioni di una scelta di ritmo, Sappiano le mie parole di sangue è un libro che non cede mai ai fantasmi del complotto e dei burattinai, ma piuttosto reclama, spavaldo e dubbioso, ossimoro, una responsabilità alla storia senza giudizi e conclusioni, in una lingua sicura, urgente e migrante. Lettera interminabile da un luogo sganciato da paralleli e meridiani, malore intimo, intimo e prolisso, logorrea tossicologica? Oppure: immaginario, sciocco esercizio di una storica di se stessa che cerca guai senza sapere e cercandoli li trova, ricomponendo eventi risaputi, testimoniati da mille e una agenzia stampa?.

breve storia di lunghi tradimenti

Io non sono io, tu non sei lui né lei, loro non sono loro (Breve storia di lunghi tradimenti, T. Avoledo, Einaudi) Lo straccio percorre uno slalom fra gli oggetti presenti sul piano della scrivania. Nessuna cosa viene sollevata, o spostata. Intorno agli oggetti si formano tracce grigie sinuose che ricordano la sabbia pettinata a rastrello dei giardini zen. Breve storia di lunghi tradimenti è un romanzo marxiano. Perché nell’esistenza e nella storia di Giulio Rovedo si riscontrano una struttura, che è la base economica di Bancalleanza, e una sovrastruttura che stiva gli aspetti ideologici, il resto, un lettore di musica, la religione e Cecilia Mazzi. In questo senso preciso Breve storia di lunghi tradimenti è un romanzo molto sovrastrutturato. La filigrana è complessa e ardita, il linguaggio disinibito, colorato e impreziosito da termini desueti, la geometria delle masse e il movimento macchine sono ingranaggi ben oliati, i titoli dei capitoli sono evocativi e ammiccanti. Se le costole di questa trama e la spina dorsale e i femori sono rappresentati dalle transazioni economico giuridiche e dalla formazione offshoring del colosso bancario e predatorio la lingua nella quale è scritta vanta una grammatica con l’esoscheletro. Perché è lingua di rimandi che gioca sul terreno delle colonne sonore condivisibili, della macrostoria che è così macro da generare eco e sentito dire, delle immagini manga e collegiali che investono l’immaginario erotico di uomini donne e bambini, dei rampanti sottili in giacca e cravatta curriculati e cravattai che popolano i corridoi di uffici mille volte calpestati o filmati e del fascino inquieto e della parafrasi irriverente di osservazioni poetiche sempiterne. Giulio pensa che i progetti siano fatti della stessa materia dei sogni. Il Prospero di questa metamorfosi letteraria è Cecilia Mazzi, che in barba a un copione già scritto non sotterra la bacchetta e non dismette i propri incantamenti. Che ordisce trame senza tornare a calcare i propri passi, che insegna a Giulio la lingua del proprio corpo perché egli possa maledirla. Cecilia è un personaggio indimenticabile, ha vestiti e gusti raffinati, profumi che stordiscono, è colta senza essere pedante, racconta storie senza esserne stupita, mente, muove persone come fossero valigie e capitali come granelli di polvere. Cecilia è una donna affascinante, si denuda con estrema nochalance, sfoggia una intera posologia di gesti di intimità solitaria, ha la pelle liscia di una bambina e gli occhi profondi di chi non vive nell’ossessione che potrebbe salvarla, finge confidenze e attua separazioni. Cecilia Mazzi è l’unica donna da amare e al cui confronto le altre non sono che manichini chiusi a qualsiasi sensazione. E Giulio Rovedo che pure è un uomo al quale affezionarsi perché crocifisso di imperfezioni e alcolismi, saccente ma insicuro, capace di interessarsi al mondo e di cogliere la luce prelivida, l’allegria minerale, il modo non orwelliano di amare, di servire e svolazzare come Ariel, di domandarsi quanto deve essere grande un sogno per poterci vivere bene, che ha avuto due figli con una donna che somiglia più a un guardiano notturno e che manca di qualsiasi connotazione fisica, rispetto a Cecilia non è che un file con una estensione non esecutiva. Stora dati laddove Cecilia può falsificarli. Breve storia di lunghi tradimenti è di certo un’altra riuscita fluttuazione di quell’universo denunciato da Avoledo ne L’elenco telefonico di Atlantide, un altro esercizio dell’enigmistico Trova le differenze, dove i personaggi cardine cambiano un poco ambientazione e affini ma non possono contraddirsi nemmeno un istante, sbagliano e comunque tornano a cercarsi. E se così fosse, se Tullio Avoledo avesse ragione, la qualità dei sentimenti umani sarebbe rispettabile anche nelle declinazione di odio rancore e dimenticanza. Siamo fuori di questo mondo, o lo sei tu, su due piani diversi dell’esistenza, due mondi diversi. Niente di quello che succederà d’ora in poi è vero, niente di quello che saremo dipenderà davvero da noi, da quello che siamo e da dove veniamo, da cosa abbiamo fatto prima di arrivare qui.

dieci

Vedi Napoli. Atto primo (Dieci, A. Longo, Adelphi)A me non me ne fotte niente”, “E allora pecché te si’ vestuta accussì?”, Pecché ‘e femmene accussì se vestono”. Non commettere atti impuri. I comandamenti di Andrej Longo sono schietti, avari di giudizi e credibili perché a tracciarli col bulino è stato un ultimo empirista. Dieci è una raccolta di racconti induttiva. L’etichetta viene dopo la storia e la storia è comunque successiva agli individui. Non dire falsa testimonianza. Non ci sono eroi o deuteragonisti ma persone, in famiglie spezzate ricongiunte o a venire, che rimpiccoliscono sotto o dietro ai problemi, intorno alle felicità e sul ciglio della strada di sempre, con sentimenti e preoccupazioni diffusi. Nonostante questo, in Dieci, non si annusa alcuna epica del quotidiano o di malavita più o meno organizzata, o dell’arte di arrangiarsi e sosciarsi sotto il sole dieci mesi all’anno. Si sente odore di pesce e di benzina ai distributori, e il latte è quello della bufala e il pane si azzuppa. Sono comandamenti che nascono dal particolare concreto dell’abitudine a non indignarsi, ad afferrare il coltello dalla parte del manico, a rinunciare di essere una pianta di basilico in un terreno che ha sempre dato rovi, a ridiscutere. Arrivi al semaforo, e quando è rosso ti fermi, fissi negli occhi quello vicino a te. E la cosa che vuoi in quel momento, l’unica cosa che vuoi sopra ogni altra, è che quello abbassa lo sguardo. Allora finalmente ti senti bene. Ti senti una specie di soddisfazione che ti scende dentro. Non rubare. Longo è fazioso, la Napoli con la quale popola le pagine, è povera senza drammi, collusa senza convinzione, giovane, espediente e un poco ‘uappa. Ma Dieci non è l’ulteriore spaccato di una città cronaca fosca e narrata in un dialetto eufonico quanto piuttosto il documentario misurato di miserie spicciole e consumate senza strepiti, terribili e nere alla fine delle quali ci sono interrogativi, incertezze e se non speranze almeno un punto di vista. Mentre lo guardavo, mi è sembrato che piano piano stava diventando un animale (…) stanno morendo e non si decidono. La pena se n’è passata e mi è venuto un po’ di schifo. Il cuore si è rimesso a battere più lento. Il respiro è tornato regolare. Ho sollevato la pistola. “Reibàn…” ha detto ancora. “Mò finisce Panzarò” ho detto. “Mo finisce tutto”. Non desiderare la roba d’altri.

fammi ridere

Vedi Napoli. Atto secondo (Fammi Ridere, L. Mascano Tadino, Robin) Questa Napoli è ricca e aristocratica. Il dialetto è un tocco di colore come le viole in giardino o i dipinti di Reynolds in casa. Questa Napoli echeggia come un luogo dimenticato, parla francese, conosce la letteratura, passa l’estate a Capri, abita a Posillipo, ferma una camera al Quisisana, coltiva i rampolli arguti e un poco maledetti di genitori assenti. Padri sciupafemmine e madri sciupasoldi per risarcimento emotivo. I soldi, poi, sembrano una cosa che non può far dispiacere a nessuno, se li nomini! Non è così: guai a dire che sei povero, ma guai pure se dici che sei ricco, oppure se dici che qualcuno è l’una cosa o l’altra. Fammi ridere – paesaggio napoletano con figure in dissolvenza è un romanzo accattivante, buffo ed eclettico, manierato quanto la storia d’amore che racconta. Federica è una bambina prodigio e Pietro, suo cugino, bello come un dio greco. I due crescono insieme complementari, simbiotici e inscindibili. Bizzarro binomio di un fanciullo sempre più uomo e di una bambina prodigio ma ancora troppo implume. Leila Mascano Tadino con una lingua raffinata e commista di termini e strutture dialettali francofone, inglesi o tedesche narra divertita la parabola di un amore senza storia ma con esiti dolorosi. Il dolore è un cane nero, no, non è un cane, è un puma. Sta acquattato nel buio della stanza, vuole tornare nella sua tana: vuole entrarle nel cervello e nel cuore e la fissa con quegli occhi gialli, con la fessura verticale, come i gatti, o i serpenti. Da vivere nascostamente. Imbarazzante e dolce come una nudità scomposta e in un mondo di panneggi. Fammi ridere non è un romanzo perfetto. Copre un arco di quindici anni, deriva dietro ogni particolare, si impaluda in descrizioni bizantine di luoghi e umori, e certe figure sono davvero troppo dissolventi nonostante stiano assise sui bivi della narrazione. Ma è la storia potente di una Napoli intellettuale e gaudente il cui acume e il cui tenore di vita e di pensiero non è mai offuscato dai suffumigi, qui caratteristici, dei vichi. Posillipo, inizi ottobre 1967.

l’acchito

Refrain (L’acchito, P. Grossi, Sellerio) Birilli e copertura. Una semplice garuffa. Copertura, sempre in copertura. Non c’è gioco senza copertura. Regole semplici e precise. Niente bombe. Niente colpi di testa. Colpi misurati e copertura. La sfortuna non esiste, se sbagli significa che hai tirato male. Pietro Grossi ha scritto una storia in cui i mutamenti e le evoluzioni sono apparenti e nella quale i confini del mondo sono quelli retti del tavolo da biliardo o quelli prospettici di una strada da pavimentare a ciottoli. Sasso dopo sasso, palla dopo palla. E sono confini giusti perché Dino nel giacchino che pare striminzito e sdrucito, e che è invece vestimento mitologico pari ai calzari di Mercurio, è un eroe popolare. Perché viene dal popolo, perché vanta appartenenza al borgo nel quale è nato e nel quale svolge il mestiere del padre, e perché con una stecca Arlecchino e un pugno di ciottoli risistema il mondo. C’è un bambino che impara un mestiere e si incaponisce sull’ossessione del biliardo. Il bambino impara l’arte, cresce e mette su famiglia. Come tutti gli apprendistati anche questo ha qualcosa di mistico e qualche caduta, molta fatica, soddisfazioni, delusioni anticipatorie e mani tese a raccogliere amore e coscienza di sé. Come tutti gli apprendistati anche questo ha qualcosa di assai sentito e già. Nonostante la nomenclatura specifica del gioco del biliardo tenda qualche inciampo al lettore, L’acchito è un romanzo liquido, commovente e ben strutturato e, per certi versi, è una tragedia greca in tono minore. Non ci sono cori o morti ammazzati, le strutture sociali non tremano e l’asfalto che ricopre i ciottoli non è un inarrestabile blob e nemmeno il Nulla di Ende ma solo qualcosa che incolla il passato al passato e che sprigiona un odore tale da impedire al futuro di mostrare possibilità e risorse. L’asfalto di Grossi è quasi un male necessario a far sì che le dita di Dino intreccino altre traiettorie. E che queste traiettorie incastrino rapporti umani e separazioni. E che queste separazioni consentano alle iterazioni di saltare un attimo solo, di sospendere l’ansia di geometria, eleganza ed esattezza di Dino. Non ci sono cori o morti ammazzati ma il tempo potrebbe essere ieri, oggi e sempre, la geografia è qualsiasi e provincia cronica, i suoni sono i tac tum tum ciàc frrr riproducibili in analogico o digitale e Dino, Sofia, Cirillo e gli altri soprannomi sono nitidi come archetipi. E se non lo sono ci somigliano assai. Non ci sono cori o morti ammazzati ma a ogni pagina il racconto di questa vita che stenta pure a definirsi pallida e che invece è teneramente esemplare potrebbe precipitare, deragliare o accastellarsi in complicazioni grandi e irrevocabili. E invece resta in bilico sulla stecca della realtà e del generale astratto e d’acchito, imperfetta, con scosse d’assesto si regge in piedi e prosegue e un poco incanta. Trovarsi anche solo per un istante in quel mondo dove le cose andavano come dovevano ed esistevano regole precise, dove il caos e la sfortuna non trovavano mai la strada di casa.

quanto so di anna

Il senso della vita (Quanto so di Anna, F. Parazzoli, Mondadori) La seduzione è certo un gioco dei più sottili (…) il vantaggio per chi la sappia praticare al giusto mezzo, è quello di sfuggire con perfetto tempismo, attraverso un’uscita di sicurezza tenuta gelosamente nascosta, a ogni responsabilità verso la persona sedotta. Il professore e Anna parlano sul piano inclinato della seduzione che somiglia invero al tavolino retto di un bar d’angolo con sopra un passero e due tazze di tè che si va freddando e che il cameriere, compiacente, di tanto in tanto rinverdisce aggiungendo ancora un poco di acqua calda. Anche le storie di Anna si affievoliscono e si raffreddano e poi tornano a respirare, ineluttabilmente, proprio come il vapore spesso che si alza dal tè. Il tè è importante tanto che quando Anna smette di sorbirlo abbandona pure le parole, e come tutto qui, è simbolo e ripetizione. Le persone sono categorie, e gli oggetti memorie, feticci, o segnapassi. Erme su percorsi esistenziali. È così dunque che passano i mesi, forse anche gli anni, ripetendo le stesse cose, rimandando gli stessi desideri. Se il professore non si fosse fermato a contemplare gli uccelli, senza la pretesa di fondare Roma, se avesse rinunciato all’incantato voyeurismo intellettuale di abbronzarsi alla meraviglia di una giovane donna ignara di Les Amantes di Malle di Anna non sapremmo niente. Anna è giovane chiusa nello scrigno risplendente serrato tra i trenta e i quaranta anni. Di Anna non si sa niente. Perché nonostante abbia scritto un libro su Etty Hillesum è una donna che riflette solo raccontandosi. Non pensa, agisce. Non esiste in sé e nemmeno vanta unicità. Brancica nelle proprie perentorie decisioni, fissa scadenze, recita a soggetto. Anna è irresistibile perché è sfuggente nonostante accarezzi una impostazione tabellare del quotidiano. O è irresistibile perché Ferruccio Parazzoli non le dedica femminini aggettivi. Perché gli occhi le si incupiscono quando ride. Perché, come scriveva Yourcenar, la bellezza non ha bisogno di agire per essere. Al professore manca la voce di Anna, il professore cerca una doppia spirale che lo rassicuri su una soluzione certa per ogni indovinello. La regola. Ogni cosa a ogni uomo. E invece. Anna è irresistibile perché è irresolubile. Quanto so di Anna è il memoriale scazonte di un uomo che passa la vita a osservare, rilassato, nella canea delle altrui danze di vittoria e perdita, successo e desolazione, seduzioni e malcontento, scrittori improvvisati che non si sa quanto fiato abbiano in corpo e spasimanti che danno senso di oppressione, che sa quanto i tropi di carta, possano diventare reali appena qualcuno porga le orecchie, meglio se una giovane donna, e sia disposto a rivestire i passanti di altrui fantasmi. Parazzoli costruisce una matrioska. Dichiara un metaromanzo, mima un tourbillon e costruisce una matrioska e si rimane lì paludati in una prosa pastosa, periodi assedianti e metoposcopie rasserenatrici. Negli smalti sorridenti e ieratici delle bambole cave che riproducono se stesse ma sempre più portatili e condivisibili. Si rimane lì, imbecilli Ganimede noi pure rapiti da una donna che forse non solo non esiste perché romanzata, ma addirittura ahinoi! non esiste perché sta nel romanzo del professore narrante al quale comunque non c’è dato di accedere. Si possono forse trarre conclusioni da qualcosa che non avrebbe mai potuto averne? Infatti, non ne ebbe mai. Sto semplicemente raccontando una storia.

andai, dentro la notte illuminata

Programma Domani (G. Liviano D’arcangelo, Andai, dentro la notte illuminata, Pequod) A casa il possesso del telecomando è una sorta di totalitarismo. Anche in biblioteca o su una panchina. Anche mentre leggi, capita. Andai, dentro la notte illuminata è una maratona televisiva dalla metà degli anni ottanta a ieri l’altro. Dal telefilm americano medio o nero, deviando per lo strapotere degli opinion makers, per i croccantini da venticinque dollari l’etto di Tinkerbell, il cane di Paris Hilton, all’ansia del reality show-biz. Ed è scritto in un tono banditore, comizio, monito e predicatore. Il risultato è surrond. L’idea del Golden Death era nell’aria (A. Nothomb, Acido Solforico, Voland), l’ultima frontiera della televisione, il parossismo dell’eliminazione mediatica del concorrente conduce all’eliminazione fisica dello stesso. Ipotesi tesi. Era nell’etere. Ora non eravamo più neppure banali esseri umani. Eravamo fiction, un flusso d’immagini che valevano svariati milioni di dollari in raccolta pubblicitaria. Tuttavia la declinazione che prendono le duecentocinquanta pagine di Giancarlo Liviano D’Arcangelo rimestano nel torbido della provincia, della mangiatoia bassa e ben condita con olio d’oliva, dell’ideologia politica applicata ai supermarket, delle infelicità spicciole riscontrabili in qualsiasi post adolescente tirato su a Fonzie, cartoon, trasformazioni bioniche di uomo in macchina e potere. Il Golden Death, il tuffo mezzo carpiato nell’eternità, è una scelta, non si viene costretti a partecipare, si sceglie di andare, di modificare e esternalizzare il concetto di roulette russa davanti a milioni di persone, di abbattere vieti valori d’onore o perdita al gioco per votarsi a quelli dello share, con un paio di scarpe sponsorizzate ai piedi e brand plausibilmente fin dentro le mutande, e in fondo ai visceri. Perché le collinette concave e dorate, nonostante non abbiano attecchito a VillaFranca, modificano lo skyline nel resto del globo e nutrono. Alex è qualsiasi, ha avuto una ragazza, ha ossessioni sessuali, punti di vista non banali ma abbastanza diffusi tra i dissidenti-non-lotta-armata-meglio-eccezione-estetica, amici incistati di nomignoli, ha passato le domeniche in casa mangiando dall’antipasto all’ammazza caffè ed è sopravvissuto, è partito per Londra e Londra alla fine era solo San Francisco. Ha sostenuto un colloquio, è stato scelto, dissuaso, ha scelto ancora. Gli eterni post adolescenti si incaponiscono sovente. E questo è il punto. Liviano D’Arcangelo suggerisce, con una lingua ben rodata, una struttura ondivaga di cronaca e rimembranza, qualche disgregazione di ritmo narrativo e eccessi entomologici su manipolazioni sessuali, o aspirazioni, che crescere può significare mitigare i toni, e, quasi copernicani, adattare se stessi alle circostanze e non, le circostanze a sé stessi. Quindi secondo lei l’opinione pubblica non esiste?, Certo che esiste. Io sono la sua genetica. Esiste così tanto che è prestabilita.

mal di pietre

La testa piena di vento (Mal di pietre, M. Agus, Nottetempo) Secondo mamma infatti il disordine deve prendere qualcuno, perché la vita è fatta così, un equilibrio fra i due, altrimenti il mondo si irrigidisce e si ferma. Se la notte noi dormiamo senza incubi, (…) se non abbiamo crisi di panico e non tentiamo di suicidarci, né di buttarci dentro i cassonetti della spazzatura, o di sfregiarci è merito di nonna che ha pagato per tutti. Mal di pietre ha una struttura incredibilmente orale e un poco ipnotica. Racconta la storia di una donna che inventa storie per continuare a campare. Si legge con le orecchie tese e il timore che la voce narrante sia sottile tanto da spezzarsi e lasciar cadere il racconto in una indefinita eterna sardità rispetto alla quale tutto è Continente. Non è solo per le incursioni dialettali che movimentano il testo e nemmeno per le osservazioni sul Mediterraneo visto dai Bastioni o sulla via Manno o su viale Luigi Morello o su Cagliari e Gavoi. No. È perché il racconto di Milena Agus si dipana tutto oltre il mare del non fatto, non detto, dei neppure questo si perdonò mai tutta la vita, di cose che accadevano ma un po’ inventate, di non aver saputo afferrare quelle parole nell’aria ed esserne felice e si intruppa in una Barbagia di quaderni neri col bordo rosso che tengono in ostaggio una giovane donna che è una bellezza. Una vera bellezza. E si avvolge Mal di pietre, si avvolge maledettamente su questa scrittura che monda la vita passata, imbastisce quella futura e stucca quella presente in maschere e teatro. I soprannomi sono maschera e lavorare a servizio è un teatro per il pianoforte e per buone intenzioni, il mal di pietre impedisce le chiacchiere su una giovane coppia senza figli e permette alla nonna di baciare col proprio sorriso quello del Reduce, l’odore di cavolo maschera la mancanza di luce della prima casa a Cagliari e la pipa apre il sipario a erotismi manierati che pure mimano piccole intimità. Non c’è azione in questo romanzo che non sia finta (azzardata?) o derivata da fantasie incomunicabili o compiuta per evocare fantasmi. C’è troppo passato e pure troppo futuro, il presente in Mal di pietre è una striscia di confine, un poco tratteggiata, un poco evanescente, scandita da un matrimonio a venire e da capelli che non imbiancano, da un pozzo buio in giardino e da pazzie non certificate. Dimonia! dimonia!. Nel presente che è nastro e che si riavvolge fino a dichiararsi annodato e dunque circoscrivibile Milena Agus muove personaggi in bilico, bidimensionali e connessi con altre figure di carta che pure palpitano e sanguinano e si innamorano e muoiono e suonano il flauto. Nonostante le vite potenziali che nemmeno i nascituri rendono perfettamente attuali questi personaggi non recriminano mai. Ed è così che con una lingua eccezionalmente piegata su una storia quasi famiglia che Mal di pietre stupisce e appena lascia incerti. Ma poi la nebbia era diventata sempre più fitta e i piani alti dei palazzi sembravano avvolti dalle nuvole e le persone ci dovevi proprio sbattere contro per vederle perché erano solo ombre.

chi ha ucciso i talk talk?

Tre sorsate e una bestemmia trattenuta (Chi ha ucciso i Talk Talk?, S. Fattori, Gaffi) Chi ha ucciso i Talk Talk? è un catalogo degli idoli, un quaderno di appunti e pertanto ci sono due captatio benevolentiae, una di Freud in epigrafe e una autografa in pedice, molte eco, molto odio, frammenti di penna e pensieri e registrazioni. Il personaggio di Saverio Fattori ha qualcosa della metodologia entusiasta, dell’immersione verticale e del rimpallo di Sonia Langmut (New Thing, Wu Ming 1, Einaudi) senza averne l’immanenza fisica e senza impersonare una specie di eterno femminino che se non porta la conoscenza del mondo almeno la trasporta su nastro magnetico. Chi ha ucciso i Talk Talk? è un libro di uomini, maschile e a tratti maschio. Come tutta la narrativa virile soffre un poco di ansia da prestazione e prepara, dal primo rigo, la caduta, la disfatta e il tentativo logorante di raggiungere nerbo e stabilità. Non si esce vivi dagli anni ’80. Come tutti i bozzetti, le moleskine più o meno logo e i post-it, il libro di Fattori è rancoroso e iterato, certe parole mutano i timpani in tamburi e battono battono fino al disgusto o all’estasi. Buco del culo dell’inferno, metastasi, acido lattico, lerciume e derivati, ammezzato, vomito. Penso ad anni di creatività disomogenea in esubero che porta a paralisi. Il sottotitolo e il sottotesto di questo libro è falsa biografia autorizzata di Marco Orea Malià che se non fosse così calcato l’accento in ogni dove, e di facile gioco il cambio, rappresenterebbe davvero e senza dubbio la malia di un decennio, e a seguire, che cola lucido in un salone di peluqueria e nei deliri di R.B. fascio sfibrato dall’ipnosi regressiva e dal passeggiare avanti e indietro nel tempo. I miei percorsi musicali post-emicrania mi hanno portato altrove ma ho rispetto per i Grandi Sopravvissuti e per quel viso da sconfitto che ha vinto. La lingua di Chi ha ucciso i Talk Talk? è violenta e pulsante, non cede a nessuna nostalgia, le idee sono feroci, le trovate lampanti, Orea Malià è sfondo e primo attore, il circo di personaggi veri e inventati scompare dietro a una abilità narrativa che se si sfilaccia nell’aspetto organico è invece poderosa nell’omogeneizzare, nel rendere patinato anni ottanta il reale, il verosimile e l’invenzione fantastica, il biografo protagonista accecato di mancanze è maledetto senza fascino e alterato senza medicinali o droghe o alcol, stringendosi le tempie dice di travestirsi da uomo standard e non comincia a scrivere mai. Annota. I quaderni di appunti sono contraddittori e i cataloghi degli idoli temporizzati e tuttavia il libro di Fattori vanta un impasto originale e una scrittura esatta, scarna e piena di promesse (quasi) mantenute.

un certo senso

Fenomenologia dell’interno sette[-te]. (Un certo senso, F. Fagioli, Marsilio) “Se copiando la minuta noti qualche difetto di forma, correggilo”. Questo era un punto dal quale al pari degli altri non potevo esimermi. Copiando in effetti notai piccole stonature, che emendai senza difficoltà. Un certo senso è un romanzo scritto in una lingua luminosa, potente e inconsueta, ha una struttura ossessiva e righe fitte baluginanti di opere d’arte e considerazioni e sogni e accostamenti linguistici immaginifici. La storia è facile, anzi, non è facile, la storia è una raccomandata. Anzi, il contenuto di una raccomandata. Anzi una colonna fecale che si rompe. Forse. O comunque un odore, un fetore che si spande per l’aere tranquillo e arde e cade come una mannaia sulla vita professionale emotiva e civile di Antonio Senso, pittore, interno 7 nel condominio di Piazza Elba 16, Roma. Il problema vero è che l’amministratore del condominio di Piazza Elba non ama le raccomandate e Antonio Senso perfezionista iterato qual è, pure gentilmente ossessivo, si accanisce a non imbucare fintanto che non abbia espresso esattamente le problematiche che gli impediscono respiro e singhiozzi e vita. Raccomandate, me la sarei cavata in pochi minuti. Nella vita di ognuno di noi si verificano circostanze del tutto inspiegabili. Un certo senso è un romanzo pretestuoso. La raccomandata, la colonna fecale e il condominio, non necessariamente in questo ordine, sono pretesti quotidiani per raccontare l’uomo, in fondo sostituibili con la ricetta di una torta di mele o l’attesa dell’autobus numero 8. Il primo metro di Francesco Fagioli è infatti l’uomo. La vicinanza con i simili impagliati di melanconia, afrori e umori, i mutui rapporti, l’incrociarsi per le scale, il discutere sull’olio col quale lubrificare una serratura. Fagioli scompone, confina e isola in Fumolo, Lacano, Angelacci, Potenzino, Lodolce, Bortot, Stanzoni, Donnini, Frasti i difetti e le intolleranze e i vizi comuni di coerenza, comportamento e amore. L’amore, da sempre, è il ricettacolo dei capolavori abortiti. Il confine del corpo dovrebbe mantenerli sopiti e trattenuti, gestibili, nella cortese comunicazione e nel comparaggio in penombra e invece dalla pustola sul naso di Angelacci in poi, tutto suppura e deborda. Antonio Senso scrive raccomandate come fossero confessioni e snocciola confessioni come gocce con le quali affrescare una intera umanità che tituba e inciampa e fa lievitare da infimi odi, enormi malumori. Un certo senso è ipnotico e cede all’assordante e al parossistico, svela il compiacimento di chi ha inteso che la grammatica da sola non basta a congestionare i lettori. Ci serve una struttura. Ma è una sensazione. Chi sa se tre cinque quindici o trenta raccomandate in meno avrebbero trasformato il tam tam in battito cardiaco?. Sciolto infine dalla responsabilità, irreperibile per telefono o per posta. Mi sembra di avvertire, di toccare la sua pace. Anzi vi prendo parte, poiché la sua irraggiungibilità mi esime dal riferirle i miei guai e indirettamente perciò mi esime dall’avere guai. Potremmo dirci vicini come non lo siamo mai stati, amministratore.

3 Responses to “rassegna di narrativa italiana 2007”

  1. ndr Says:

    elena varvello e pietro grossi li ho visti, e sentiti, un paio di settimane fa, a pistoia, con nicola lecca. erano i finalisti di un premio, Il Ceppo, per racconti. di grossi infatti era Pugni, e non questo ultimo.
    la cosa più bella fu che non parlarono tanto dei loro racconti, ma di scrittura e letteratura e degli autori e autrici che gli piacciono. ed un bell’incontro, e mi sono sembrate anche belle persone, entusiaste ed appassionate. e niente. grazie per queste tue letture.

    ndr

    ***

    figurati ndr. grazie anche a te per le tue letture.
    io penso che i racconti di Elena Varvello siano bellissimi.
    cioè semplici e superlativi.
    e questo. ;-)
    chi


  2. […] plateale, regimental daltonica, cultura intermittente e sorriso indiziario. Quelli che hanno letto Il signor figlio sanno che Infinita notte è un’altra declinazione de l’opera, che è l’opera stessa […]

  3. leila mascano Says:

    Un caro amico, intellettuale troppo noto perché io citi quello che mi ha detto in una lettera privata, mi ha scritto che trova straordinario in Fammi ridere evocare così suggestivamente luoghi ed emozioni ” pur senza descriverli, o sfiorandoli appena”. In genere non commento le critiche al mio libro, favorevoli o meno, ma questa mi ha sorpresa. Invano cerco tra le mie pagine Bisanzio, ma si sa: Bysance è anche un profumo. Basta una goccia, e appare un mondo…

    ***
    grazie per aver letto. chi.

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